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martedì 25 novembre 2014

Un messaggio da un'Operatrice 451

Riceviamo e pubblichiamo l'esperienza di uno dei tanti Operatori 451

Lavoro come operatrice telefonica da 9 mesi ormai. I primi 3 li ho passati un un call center pluri mandatario, lavoravo 4 ora al giorno dal lunedi al venerdì per 300€ lorde, prendevo appuntamenti per consulenti. Poi mi hanno presa in un'azienda piccola, dove sembravano promettere un futuro migliore... Ma purtroppo così non è. Ci lavoro da 6 mesi, e a essere sincera è peggio di prima, contratto da fame, non si arriva a 800€ x 6-8 ore di telefono con fisso mensile di 300€ più provvigioni minime x appuntamento eseguito, niente paga oraria. 

Le persone che chiamo mi liquidano con frasi del tipo : non mi interessa niente! O oppure: io sto lavorando!!!
 Come se io invece mi stessi divertendo. Forse, chi non ha mai fatto questo lavoro - perché si è un lavoro, da fame, ma è un lavoro - non capirà mai cosa si prova ad essere precarie in call center. Operatori 451 di tutto il mondo facciamoci sentire!!!

giovedì 20 novembre 2014

Lavoratori dei call center: sciopero nazionale e notte bianca per dire stop alle delocalizzazioni

Ci sarebbe molto da riflettere sulle forme di protesta roposte dai sindacati, nonché sui sindacati stessi. Comunque pubblichiamo la notizia dello sciopero indetto per il 21 novembre. 

Il 21 novembre il settore si ferma con una manifestazione a Roma per protestare contro le molte aziende che licenziano. I sindacati: situazione aggravata dal vuoto normativo che dà mano libera agli imprenditori più spregiudicati

Uno spot sotto forma di noir per dire no alla delocalizzazione, cioè il trasferimento del lavoro all'estero, che sta piegando il settore dei call center. Un modo originale, quello dei thriller sindacali, di raccontare i problemi del mondo del lavoro e dei lavoratori.




Il protagonista de "L'assassino del call center" è proprio un imprenditore che sceglie di portare all'estero la sua attività. Un antieroe che trasferisce cuffie e telefoni in Transnitria, regione moldava autoproclamatasi autonoma

lunedì 27 ottobre 2014

Albania, la migrazione dei call center

Un lavoro che in Italia è stato a lungo visto come l’ultima frontiera del precariato, a sessanta chilometri di mare è percepito positivamente da migliaia di giovani albanesi. L'Albania e i call center, tra opportunità e contraddizioni
In Italia la diffusione dei call center risale agli anni 2000, ma è solamente nel 2008, grazie a un riuscitissimo film di Paolo Virzì, che questa realtà lavorativa entra nel nostro immaginario collettivo. "Tutta la vita davanti", amara e grottesca commedia tratta dal libro "Il mondo deve sapere" di Michela Murgia, racconta la storia di Marta, ventiquattrenne d'animo buono laureata cum laude in filosofia: una delle tante voci senza volto cui tutti abbiamo chiuso il telefono in faccia, almeno una volta. Quello che il film non racconta, è che Marta, molto spesso, è albanese.


I call center, un business contemporaneo

I call center si dividono in due macrogruppi: i centri inbound ricevono le telefonate, fornendo il più delle volte un servizio di assistenza clienti; i centri outbound invece le effettuano, attuando campagne pubblicitarie o promozionali (è il cosiddetto telemarketing). Per aprire un call center non è necessario un grande investimento iniziale: basta un locale dotato di computer (magari di seconda mano) e allacciamento internet.

domenica 19 ottobre 2014

Sono tornato...in linea dall'inferno!

L'Operatore 451 è tornato, anzi non è mai andato via. Vi ha forse smesso di squillare il telefono? Non vi sono forse arrivate chiamate per proporvi acquisti, per sottoporvi sondaggi, per informarvi di appuntamenti? Oppure non avete voi chiamato per comprare, prenotare, sapere.... bene, l'Operatore 451 instancabile lavoratore era al proprio posto.

Nel frattempo potrebbe aver provato a cambiare lavoro, potrebbe anche esserci riuscito, un altro invece causa gioiosa flessibilità potrebbe essere tornato a calzare le sacre cuffie. Ma comunque lo spirito granitico dell'Operatore non si è piegato.

Mentre ricomincia ad avviare il programma che conterà la sua permanenza sul posto di lavoro (un quarto di ora di pausa pagata ogni due ore di lavoro compiuto, se poi ti scappa di pisciare cazzi tuoi) pensa che effettivamente quello che fa è un lavoro come un altro: stessi orari (se non di più), stesse dinamiche, stessa produttività. Però il lavoro che l'Operatore compie tutti i giorni è sminuito da tutti... perché?

La risposta è semplice, perché da un punto di vista contrattuale è meno garantito. Ed è questo il cortocircuito che ci si trova a vivere in questi magnifici tempi: la flessibilità (sempre e solo a senso unico) impera, ma i nostri valori culturali e sociali considerano accettabile la solidità (giustamente). Ed ecco che lavorare sotto padrone con un contratto è considerato adeguato, lavorare sotto padrone con un contratto flessibile è considerato fallimentare. E quanti fallimenti vede la nostra società, pensa l'Operatore mentre in silenzio controlla telefonate di suoi colleghi. Il primo passo è riflettere, capire. Per assurdo, pensa ancora l'Operatore, in questa società sofferente l'unico atto di pietà sono state le lacrime del boia Fornero, mentre annunciava ulteriore povertà.

Ma l'Operatore nella povertà ci sguazza ed è pronto a ricominciare, è pronto di nuovo a parlarvi... in linea dall'inferno!

martedì 16 aprile 2013

Pronto, chi paga?


Il Sud è il regno dei call center nati come funghi grazie agli incentivi. Il risultato? Contratti capestro e “a tempo” per la maggior parte dei dipendenti. E poi la beffa: i grandi gruppi emigrano in Albania

Lavorare in un call center non è più un girone di purgatorio in attesa di una vera occupazione. Il settore è oramai un’industria di servizi che dà lavoro a oltre 80mila italiani. Stando alla stima ufficiale, poi c’è un mondo invisibile fatto di piccole e piccolissime aziende, che nemmeno il sindacato è in grado di censire: solo nel settore del recupero crediti si contano almeno altre 14mila unità. Anche per questo comparto piovono incentivi, ma l’assenza di regolamentazione lascia che sia il profitto a definire le regole. E quando il costo principale è il lavoro la concorrenza si fa tagliando i salari. E precarizzando. «Le aziende committenti pretendono tariffe così basse da obbligare i call center a trovare tutti gli escamotage possibili per rimanere sul mercato», spiega Michele Azzola segretario nazionale Slc Cgil. E per rimanere sul mercato, numerose aziende hanno deciso di aprire dei centri al Sud. Perché conviene. Grazie ai benefici della legge 407 del 1990, che prevede lo sconto del 100 per cento dei contributi previdenziali e assistenziali per 3 anni, per chi fa impresa nel Meridione assumendo disoccupati con contratti a tempo indeterminato. Tradotto: se un’azienda apre in Calabria, Sicilia, Puglia o Campania, usufruendo della 407, per tre anni sostiene un costo del lavoro significativamente inferiore a quello dei concorrenti del Centro-Nord. La convenienza si fa ancora più allettante se alla 407/90 si sommano gli incentivi derivanti dai Fondi strutturali europei a supporto dell’occupazione (Fse). Un’altra pioggia di euro che arriva dritta dalle casse dell’Unione e viene poi centellinata dalle Regioni, in questo caso, del Sud. La pioggia di incentivi, però, non incrementa l’occupazione nemmeno di un posto di lavoro. E rischia di offrire a imprenditori “di passaggio” la possibilità di fuggire con la cassa. Perché allo scadere dei tre anni «il costo del lavoro aumenta e l’azienda dovrebbe maggiorare la tariffa al committente che, ovviamente, non ci sta», spiega Azzola. «Perciò apre un altro centro, sempre usufruendo dei benefici, e continua a praticare tariffe basse operando da un’altra parte. Oppure subappalta ai “cantinari”, cioè le aziende con 100-200 lavoratori che aggirano la legge utilizzando quasi nella totalità contratti a progetto». Restando ai dipendenti stabilizzati, per calcolare quanto gravano le assunzioni agevolate sulle casse pubbliche, i sindacati hanno ipotizzato un triennio 2012-2014 in cui il 10 per cento del comparto viene interessato dalla “ristrutturazione”: conti alla mano la stima è di 480 milioni. E lo Stato rischia di pagare tre volte: con gli sgravi fiscali per le nuove assunzioni, con la cassa integrazione allo scadere dei tre anni di contratto agevolato e, infine, per l’avvio di una nuova attività. Un’occasione colta al volo dai call center, imprese dove non servono grandi investimenti in attrezzature e il costo del lavoro incide sul bilancio per il 75 per cento. In Calabria, per esempio, in pochi anni sono stati creati circa 15mila posti di lavoro. Come a Catanzaro: Telecom Italia, Tim, Vodafone, Wind, Enel, Poste italiane, Rai, Inps e Treccani. Tutti fanno outsourcing a Catanzaro. In vetta al settore il Gruppo Abramo «che conta 3.500 lavoratori, con un fatturato di gruppo di 100 milioni di euro. Cifre che in Calabria sono davvero importanti. Non è più un “lavoretto”, adesso chi ci lavora mette su famiglia sulla base di quel salario», spiega Daniele Carchidi, segretario regionale Slc Cgil. E il collega siciliano Davide Foti, dipendente e sindacalista di Catania, rincara: «Al Sud siamo diventati la Cina dell’Italia. Spesso questa è l’unica possibilità di lavoro che c’è». E dura al massimo tre anni.

Gli operatori call center si dividono in precari (40mila outbound), che telefonano agli utenti per vendere un prodotto, e stabilizzati (45mila inbound) che lavorano invece in ricezione. Perché questa ingiusta differenza? I primi non hanno fatto in tempo a usufruire dei provvedimenti introdotti dall’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano (Pd), a causa della caduta del secondo governo Prodi. E per Berlusconi e il suo ministro Sacconi i precari outbound potevano rimanere tali. A questi lavoratori viene applicato un sistema misto di rimborso spese e cottimo, modalità vietata dalla legge italiana per il lavoro dipendente. «Gli outbound sono tutti cocopro e vengono pagati con un rimborso forfettario di circa 250 euro più un premio “a pratica” o “a vendita”. È cottimo», dice ancora Michele Azzola. «Non solo, l’azienda decide quando e come farli lavorare: può dare loro una “lista sporca” (in gergo lista di gente che si sa non compra nulla, ndr) oppure numerose pratiche per farli guadagnare. E se vuole mandarli via, chiude il rubinetto e li lascia al minimo di 200 o 300 euro al mese».

Donna, trentenne e soprattutto con un alto tasso di scolarizzazione. È questo il ritratto del lavoratore tipo. Anna rispecchia pienamente questa descrizione: è un’architetto di 31 anni, vive a Reggio Calabria e fino a qualche settimana fa lavorava in un call center occupandosi di «lavorazioni su pratiche di clienti Mercato libero di Enel Energia Spa ed annesse attività di outbound telefonico», come recita il contratto. Gestiva i reclami dei clienti Enel. Nel call center c’è finita per caso. «L’ho saputo da un amico, ultimamente mezza città lavora lì. Ho inviato il curriculum e sono stata subito chiamata». Dopo un mese di formazione pagato 10 euro lordi al giorno, comincia a lavorare davvero. Ma guadagna sempre meno: «Solo un mese sono riuscita ad arrivare a 700 euro lordi», racconta, «gli ultimi tempi ho quasi vergogna a dire di aver guadagnato nemmeno 200 euro al mese. Perciò quando il contratto è scaduto e non me lo hanno rinnovato io non ho fatto nulla per tornarci». Una sorta di induzione al licenziamento per mancato salario.

Precarietà e qualità dei servizi camminano a braccetto. Spesso chi risponde alle nostre chiamate non è preparato alle nostre richieste. Non fidelizzare significa anche avere un pessimo servizio. E nemmeno i grandi committenti valutano l’ipotesi di stabilizzare per migliorarne la qualità. Anzi, «sistematicamente al massimo ogni 3 anni fanno una gara per cambiare call center», chiosa Azzola. «Nessuna buona pratica, ragionano tutti sul costo. In Europa si fissa un costo, e per quella tariffa i call center si cimentano e investono sulla formazione dei lavoratori. È l’Italia che è fuori dal coro, siamo noi i diversi, perciò serve un intervento della politica». Il governo Monti un intervento lo ha fatto. La riforma del mercato del lavoro firmata Fornero ha introdotto dei minimi salariali anche per i contratti a progetto rendendoli più simili a rapporti di lavoro dipendente. Nella maggior parte dei casi gli attuali cocopro sono stati prolungati fino a dicembre. Perciò, chi ha sottoscritto un vecchio contratto nel 2013 potrebbe trovarsi per strada. Secondo Azzola, adesso «gli imprenditori del settore si organizzano per andare all’estero». In effetti, tra Tirana e Durazzo – dove un lavoratore costa un quinto che in Italia – si è già trasferito il colosso Teleperformance, l’azienda controllata da una multinazionale francese che gestisce clienti come Alitalia, Sky, Vodafone, Eni e Mediaset. In barba ai contributi presi.

Ringraziamo per la concessione l'autrice Tiziana Barillà
left 40 - 6 ottobre 2012

martedì 26 marzo 2013

LA SCATOLA DELLA SODDISFAZIONE

Oggi mi spediscono in una stanza piccola piccola, riscaldata solamente dagli starnuti ed i colpi di tosse grassa di una delle altre telefoniste. Al centro della stanza campeggia la classifica: Giovanni 7; Sara 4; Marco 2; Magda 1; Ale 1. La signora che ci ha parlato ieri, con fare rassicurante, faceva costantemente riferimento al concetto di OBIETTIVO

<Ragazzi quello che vi chiediamo è possibile!>

Questo concetto è il faro guida di qualsiasi operatore, a questo concetto è legato il tuo stipendio, la continuità del lavoro, ma soprattutto è indirettamente proporzionale alla frequenza con cui ti stimolano a fare di più. Più l'obbiettivo si allontana più ti scassano il cazzo con frasi del tipo: < Dobbiamo farcela! > , < L'azienda dipende dal raggiungimento dell'obiettivo > oppure < Io non voglio persone che stiano qui solo per lo stipendio >. Quando le stimolazioni sono finite ritorno ad ascoltare , con la parte di me che non sta lavorando, i commenti che gli altri operatori fanno tra una chiamata e l'altra: <Anvedi er cognato de mi sorella!!> oppure <Pronto parlo cor titolare? Attaccato mortacci sua... pure io vojo diventa titolare de quarcosa, mo me pio n' bar, ho sentito che ce so dei cosi che te danno i sordi poi tu je i ridai... pe' i giovani...>.
Smetto di ascoltare anche questo e mi metto a fissare la scatola della soddisfazione, poggiata in un angolo sopra di una sedia, chiusa con lo scotch e con una fessura sul coperchio, per inserire i propri commenti. Penso quindi di prendere alla lettera il suo nome. Mi alzo, infilo l'uccello in quella ruvida fessura di cartone e aspetto che nella mia vita succeda qualcosa.

martedì 22 gennaio 2013

SIAMO UNA SQUADRA

Siamo una squadra, se uno di noi manca o non lavora bene, tutti ne risentono”. Questo ripete il coordinatore del gruppo mentre attenti e impeccabili presenziamo alla riunione di rito a fine giornata. Il lavoro che portiamo avanti è della massima responsabilità e dalle nostre azioni dipende non solo il risultato, ma anche il destino dei nostri stessi compagni. Fianco a fianco ci passiamo forza, ci proteggiamo e veniamo protetti. Non possiamo permetterci di essere disattenti o imprecisi, su questo il coordinatore è stato chiaro: le nostre qualità sono al servizio della collettività e una nostra mancanza, oltre ad essere un atto vigliacco verso i nostri fratelli, è deleterio per la causa. La nostra etica del lavoro è la principale forza: mai abbassare la guardia, mai bighellonare. Un’intera nazione ci ascolta e conta sulle nostre capacità. Ogni mattina la puntualità serve a sottolineare la propria superiorità morale: come può un grande uomo soltanto pensare di non farsi trovare pronto? Ed è giusto che la macchina delle impronte al servizio della causa, qualora ci si presenti in ritardo di cinque minuti, segnali che si inizia a lavorare con mezz’ora di ritardo: la responsabilità va allenata giorno dopo giorno e data l’importanza del compito è altresì giusto che se si lavora invece cinque minuti di più, non si venga premiati con la stessa mezz’ora; ci è richiesta puntualità e perizia, la pedagogia che ci viene imposta è una giusta regola per lo spirito. Quando siamo al nostro posto di lavoro, siamo circondati dai colleghi. Ognuno di noi è unito agli altri da alte barriere che dal tavolo arrivano fino al soffitto; il lavoro collettivo è semplicemente aumentato dalle divisioni inserite fra di noi, se ognuno ha lo stesso spazio, tutti hanno lo stesso spazio, tutti sono uno. Purtroppo però non tutti hanno nel tempo avuto la stessa nostra fortuna: quanti fratelli sono passati e caduti al nostro fianco. Le postazioni una volta piene di azione, sono spesso vuote e ricordano a stento i nomi e gli eroi che un tempo le hanno occupate. Ma la lotta non è per tutti, sebbene anche un giorno potrei cadere, sono orgoglioso di continuare la battaglia giorno dopo giorno, anzi ora dopo ora, visto che il compenso è legato indissolubilmente alle ore, ai minuti, ai secondi. I numeri sono le basi del nostro tempo ed è per questo che bisogna garantirne una determinata quantità: mai andare sotto quanto elaborato, puntare all’incremento e quando si è raggiunto, divieto assoluto di tornare a diminuire. Non essere allontanati dal proprio posto è la massima aspirazione di ogni operatore: vergogna e dannazione eterna per chi, facendosi trovare impreparato e improduttivo, non ha servito a dovere la causa. I coordinatori, elaborando i dati, conoscono nel minimo dettaglio il nostro lavoro e sono giudici senza discrezione, senza volontà: anch’essi sottoposti all’insindacabilità dei dati, anch’essi inermi dinanzi alle analisi dei loro superiori. Tutto ciò garantisce un’equità senza pari fra i diversi gradi dell’organizzazione: dal più anonimo operatore fino al vertice (da noi sconosciuto e ignorato) è l’efficienza che governa le nostre vite, madre non affettuosa ma giusta. Spero che queste brevi ed estemporanee riflessioni dell’operatore 451, raccolte in una domenica di riposo dall’onesto e quotidiano lavoro, possano raggiungere chi non conosce o giudica preventivamente l’arduo ed importante compito di tutti gli operatori del mondo. Call center di tutti i paesi, unitevi.